La creatività (nostra virtù) è un concetto volutamente aperto all'equivoco, a seconda dei princìpi e dei valori che ne fondano le possibili definizioni. Le parole che servono a dividere e a distruggere o a creare e comporre, ciò che conta è l'intenzione. Anche, soprattutto in cucina. Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei, scriveva il grande fisiologo del gusto Jean Anthelme Brillat-Savarin; possiamo aggiungere come mangi e avremo il ritratto di due straordinarie culture alimentari e gastronomiche del pianeta, quella italiana e quella francese. La cucina italiana è una cucina della resilienza, della condivisione e dell'ossessione per la tradizione, mentre in Francia si applica una cucina della composizione, del rituale, dell'esperienza a tavola. L'esperienza francese della tavola è codificata, come d'altra parte ogni elemento del corpo gastronomico. Formules déjeuner, carte e menu sono imprescindibili per chiunque metta piede a Parigi, in Francia e pure ovunque (alberghi, navi da crociera, parchi di divertimento) la cucina francese coincide con quella contemporanea, cioè internazionale. In Italia abbiamo i primi, un patrimonio nazionale, ma siamo secondi nella narrazione (lo storytelling) del tesoro che natura e cultura ci hanno offerto per secoli. Siamo schiavi di pizza e pates come i francesi lo sono del gusto ad ogni costo. Abbondantemente innafiato di terroir (champignons, foie gras, fines de claire), mentre da noi è il territorio, con prodotti semplici e quotidiani (ma non meno rari) che domina i rituali, dalla pasta con la mollica al sicchio d”a munnezza vesuviano, fatto con le ciociole (uvette, noci, pinoli) raschiate dalla tavolata natalizia del giorno prima. Cibi di rara bontà e consistenza, lontanissimi dal codice aureo di Auguste Escoffier, inventore alla fine del IXI° secolo della cuisine gourmande, della gastronomia francese (e Italiana). Tecniche, materiali, cotture vengono ingegnerizzate dal primo chef nazionale di Francia e mai più abbandonate. Tre i concetti a fondamento del nuovo paradigma: la cucina è alta sartoria, nuova e rivoluzionaria arte della borghesia (ormai le nobili teste sono cadute da oltre un secolo), cucinare è un mestiere e prevede l'esatta conoscenza della fisica, della chimica ed è incentrata sul gusto, attraverso tutti i sensi (in primis, l'odorato). La quarta regola, non scritta e recentemente sancita dall'Unesco, riguarda il luogo e il modo privilegiato del suo consumo: la cucina si serve a tavola, con un rituale che porta il nome di repas gastronomique. Fin dalla prima pagina della bibbia della nuova cucina internazionale, ritroviamo, già confezionato, il modello della nouvelle cuisine (che vi aggiunse poi la necessità di semplificare e di restituire dignità alle materie prime, al terroir). Al di qua delle Alpi, il discorso si ribalta: la cucina si fa in casa, si mangia (anche) per strada, si aggiunge o meno noce moscata (Artusi) o olio (Donpasta) all'uopo, a seconda dell'appetito, dell'umore. O così, a' sentimento, senza alcuna ragione apparente. A Firenze prima e a Napoli poi, le capitali della cucina sincretica aristocratico-popolare, si sperimenta da secoli per le decadenti e sontuose tavole aristocratiche, ma consentendo ad un fiume carsico, quello delle cucine popolari comunitarie, di esprimersi, di entrare nelle cucine, non solo in quella del Re. Oggi, Massimo Bottura (che non a caso spadella in una Osteria) da una parte, Alain Ducasse (sbarcato addirittura alla Reggia di Versailles) dall'altra, guidano le prime due cucine nazionali del mondo (la nostra risponde al principio dell'indeterminazione, quella francese alle leggi della forza centrifuga) senza troppo domandarsi cosa e come sarebbe una cucina umanista e popolare finalmente unita a quella illuminista, assai borghese, d'oltralpe. Qualcosa di simile ad una nuova rivoluzione, la cui epifania, forse, cominciamo ad annusare. In attesa della prossima, inevitabile, restaurazione.