La Cité Falguière, un impasse nel cuore di Montparnasse, è anzitutto un luogo dell’anima. E’ un santuario dimenticato, che conserva sbiaditi gli slanci, le luci, gli odori di un’epoca folle, la Parigi degli inizi del secolo scorso. Nei suoi ateliers, artisti da tutto il mondo generavano il mito di un momento artistico irripetibile.
Amedeo Modigliani, Constantin Brancusi, Tsugouharu Foujita, Chaim Soutine, insieme a decine di artisti dimenticati, modelle e studenti delle accademie di arte, hanno lasciato nel villaggio labirintico degli atelier della Cité Falguiere traccia del proprio passaggio, in un fertile incontro di vite e colori, pietre e sudore, magnificenze e miserie nella Paris di inizio secolo.
Oggi, rue Falguière nel quindicesimo arrondissement, è una via un po’ anonima, appesantita dai molti logements sociaux. La Cité Falguière, in particolare modo, è stata interamente demolita intorno al 1960 per fare spazio ad ingombranti palazzi contemporanei. Elogio della mediocrità. Dell’antico villaggio, atelier dalle comodità minime uniti da improbabili passerelle nel cortile, è rimasta solo una porzione di 100 metri quadri di atelier di artista, incastrata tra palazzi a sei piani ed il retro del giardino dell’Institut Pasteur.
Qui quarant’anni fa è avvenuto il fatale incontro tra Montparnasse e Mira Maodus, raffinata artista di origine serbo-russa.
Maodus dal 1978 abita e lavora al numero 11 della Cité Falguière, il suo è l’ultimo atelier di artista rimasto. L’atelier dove per anni ha lavorato Chaim Soutine, pittore russo, di famiglia ebrea, emigrato a Parigi nel 1912, esponente bohèmien della École de Paris.
Andiamo a visitare questo luogo incredibile, bussando con emozione ad un portone di legno logoro, sopra il quale è scritto a mano a grandi lettere con un gesso rosso “Dans cet atelier habita Chaim Soutine”.
"Voi siete italiana e siete certamente qui per Amedeo Modigliani. Prima di rispondere alla sua intervista voglio mostrarle qualcosa" si alza e prende vecchie riviste e vecchi libri in cui si parla di Modigliani alla Cité Falguière, che qui occupò vari ateliers, nelle sue peregrinazioni a Montparnasse, dal 1909 al 1916, dedicandosi alla pittura e confrontandosi con la sua vera passione, la scultura.
"Io ormai sono una vecchia signora" ammette sorridendo" ma ancora oggi, quando vedo una foto di Amedeo Modigliani non posso fare a meno di innamorarmene”. Come darle torto.
Ci chiede di seguirla, ci conduce nella corte, un grande giardino piastrellato dove, a livelli diversi si affacciano gli altri ex atelier. Dalle ampie vetrate si intravedono arredamenti algidi, che soddisfano gli egocentrismi degli architetti di tendenza.
“Per un certo periodo Modigliani ha abitato qui, per un tempo più lungo nell’atelier più grande vicino alla Villa Falguière al primo piano, ormai demolito. L’atelier davanti a noi invece era lo studio dell’artista giapponese Foujita. Gli attuali proprietari non vogliono parlare di queste storie. Pare che in questo giardinetto piastrellato Modigliani abbia scolpito le cariatidi".
Le monumentali opere esposte al Moma di New York sono nate qui in questo piccolo cortile fiorito. E sembra di vederlo il maestro che le scolpisce di notte, a petto nudo, sudato, sofferente, felice.
Il patio della Cité Falguière era la memoria dei resti di opere incompiute. Pietre arenarie, modellate in opera d’arte o appena scalfite da uno scalpello esitante, venivano lasciate sulle aiuole fiorite, come in un cimitero di espressioni disamorate.
"Fate pure tutte le foto che volete e se i vicini vi sgridano dite loro che siete miei amici...essi si trovano in un santuario dell’arte moderna e non se ne rendono conto. L'anno scorso hanno cacciato dei giornalisti della TV giapponese venuti per un servizio su Foujita. Ho spiegato ai giornalisti che avevano il diritto di rimanere, ma sapete, i giapponesi tengono molto alla forma”.
Noi non ci facciamo intimidire dai vicini che Mira chiama “i barbari”, contro i quali ha vertenze in corso per evitare la costruzione di un locale per la raccolta differenziata proprio nel cortile dell’atelier. Facciamo delle foto. Rientriamo nell’atelier, circondati dai suoi lavori.
Le tele di Mira Maodus sono forti, espressive ed eleganti. Messaggi senza voce, come graffi raffinati sulla pelle odorosa della tela. Le sue parole non trattenute. Vento di segni, cifre, simboli cirillici ed ideogrammi che vengono da lontano e che convergono vorticosamente dentro le mani di questa artista che racchiude in sé il mondo. La sua urgenza di esprimersi, forse di gridare, che il garbo le impedisce di fare se non con estrema eleganza.
Mira Maodus è una donna che ha molto vissuto, non per una questione anagrafica, ma per la ricchezza inimmaginabile e feconda della sua vita. Vita che traspare dalle sue opere.
Si sentono la signorilità di San Pietroburgo, il rigore di Belgrado, la frivolezza di Parigi, la nostalgia di Venezia. L’esotismo del Giappone. Una vita che è essa stessa opera d’arte.
Madame Maodus, entrando in questo posto sembra di fare un tuffo nel passato. Dove ci troviamo esattamente ?
"In questo momento vi trovate nell'atelier di Soutine, nel cuore di quella fu un tempo l’anima della Cité Falguière dell’inizio secolo scorso. Un laboratorio inimmaginabile di sperimentazione, che riuniva giovani artisti da tutto il mondo. Sono qui da quarant’anni. Ho cercato di lasciare questo luogo il più possibile com'era per non corrompere la sua energia. Quando l’ho acquistato era in pessime condizioni, l’artista che lo aveva preso da Soutine era un noto scultore del ferro, Antoine Rohal (allievo di Antoine Bourdelle n.d.r.), ungherese ma naturalizzato francese. Non aveva fatto nessun lavoro di ristrutturazione e voleva che questo luogo restasse un atelier di artista. Così è stato. Alla sua morte nel 1978, grazie al contributo fondamentale della mia galleria giapponese, sono sopraggiunta io”.
Lei ha origini serbo/russe, vive tra Parigi, Belgrado e Tokyo ma ama dire di avere un debito di gratitudine verso l’Italia...
"La mia famiglia apparteneva alla Russia "bianca" scappata dalla Rivoluzione del 1917. Nel 1942 mia madre era incinta e si trovava nei confini instabili dei Balcani. Le dissero di provare ad attraversare la frontiera per partorire in quella che allora era Italia. Dicevano che anche nella follia della guerra l'esercito italiano proteggeva le donne ed i bambini. Il resto del mondo impazzito li uccideva. Avevano ragione, io sono nata. Nel 1948 ci siamo trasferiti a Belgrado. La Jugoslavia di Tito non era facile per i russi, ma nella grande Belgrado c’era un po’ più di tolleranza. Sono cresciuta con mia madre, i miei otto fratelli e mio nonno scultore. Egli morì pazzo e mia madre associò sempre la sua discesa nella follia alla sua arte. Per questo motivo quando da bambina ho cominciato a disegnare lo facevo di nascosto. Mia madre mi picchiava quando mi scopriva. Per me dipingere è rimasta un’urgenza, è la prima cosa che faccio al mattino. Ho ancora la sensazione di dovermi sbrigare, come se facessi qualcosa di proibito”.
Qual era il clima culturale e artistico della Parigi degli anni settanta? Come è arrivata in questo luogo incredibile?
"Sono fuggita da Belgrado da ragazza per amore di un uomo e per poter coltivare la passione dell’arte, ho seguito i miei studi d’arte in Germania alla Werkkunstschule di Francoforte. Da lì poi sono arrivata a Venezia, all’Accademia delle Belle Arti. Fino ad approdare a Parigi, dove ho studiato all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts. Il clima della Parigi degli anni settanta era incredibile, stimolante e competitivo al tempo stesso. Non facile per una donna, come sempre. Uno choc artistico che ha cambiato il mio lavoro, da figurativo a contemporaneo. Eravamo verso la fine di un periodo di grandi artisti a Parigi. La scena artistica contemporanea poi si è spostata rapidamente verso New York, Londra, Berlino. Dopo le prime mostre collettive a Parigi ai vari Salon d’Automne e le personali presso la Galerie Jean Claude Riedel, ho cominciato a lavorare per la Ghendai Gallerie di Tokyo. Grazie al loro sostegno sono riuscita ad arrivare all’Atelier che fu di Soutine, alla Cité Falguière”.
Parliamo adesso di lei e dei suoi riferimenti. Di fronte alle sue grandi tele, animate di lettere, cifre e simboli ci si sente rapiti come da una forza vitale comunicativa vorticosa. I suoi colori uniti ai simboli, costruiscono forme sintetiche incredibilmente espressive. Come è arrivata a mantenere questa complessa ma immediata armonia?
"A Parigi, dopo un iniziale periodo di sconforto ho trovato più coraggio di esprimermi, di riconoscere la mia mano e trovare le mie influenze. Qui ho visitato centinaia di esposizioni, oltre che ai miei primi maestri, Amedeo Modigliani e Chaim Soutine, sono stata molto colpita dall’avanguardia russa, soprattutto André Lanskoy, e dal movimento del gruppo artistico nordico Co.Br.A.
Ho realizzato il mio primo lavoro con le parole dipingendo frammenti di frasi di una lettera tra Van Gogh e Gauguin, testimonianza di un rapporto non facile. Ho iniziato così a ricercare armonia e contrasto tra colori e simboli, utilizzando spesso i caratteri cirillici o giapponesi con gusto estetico. Inseguo l’armonia nella complessità, lavoro per soddisfare un mio bisogno, alla ricerca infinita della mia fata Morgana irraggiungibile. Non riesco mai ad afferrare quello che veramente voglio esprimere. Se nella mia urgenza riesco a fare qualcosa di bello per gli altri, ne sono felice. Forse è questo il senso dell’arte, dare anche solo un attimo di gioia ad un mondo altrimenti così brutto."
Madame Maodus, perché questo luogo dal valore inestimabile, di cui lei si fa guardiana, non è protetto dalla Repubblica francese come patrimonio culturale?
"Un tempo molte persone venivano qui a visitare la Cité Falguière, ancora abitata da vecchi artisti. Quando essi sono morti le agenzie immobiliari hanno speculato sugli atelier, snaturando questo luogo dalla sua anima. Da decenni abbiamo cercato di sensibilizzare gli amministratori alla salvaguardia del sito, nel 1996 si è costituita un’associazione presieduta da Jacques Mauve, farmacista del quartiere Pasteur, che ha presentato regolarmente dossier ai Ministeri competenti al fine di ottenere il riconoscimento di patrimonio culturale. Non è mai arrivato. Neanche una targa commemorativa, forse per non disturbare i ricchi residenti degli ex atelier. Jacques Mauve ha raccolto instancabilmente durante la sua lunga vita molto materiale sugli anni d’oro della Cité Falguière, alla sua morte la sua famiglia ha donato queste preziose ricerche al Museo di Arte Contemporanea di Osaka, in Giappone. La cosa che più mi rattrista è che i giovani francesi non conoscono la storia di questo posto. Vorrei che Parigi lo valorizzasse come si merita. In Italia non sarebbe successo” .
Purtroppo, non ne siamo così sicuri. Madame, Lei ha allestito mostre personali in Giappone, Francia, Italia, Germania, Svizzera. Espone nelle prestigiose gallerie parigine a Saint-Germain-des-Prés. Sue opere sono esposte in collezioni museali permanenti in Serbia, Bosnia Erzegovina, Romania e Giappone. Quali sono i suoi progetti per il futuro?
"In estate ho realizzato un’esposizione personale in omaggio al grande poeta serbo Jovan Dučić al Museum D’Herzegovina di Trebinje, attualmente sto lavorando alla mia prossima esposizione parigina, la mia prima retrospettiva, alla Galerie Saphir nel Marais. Ad inizio dell’anno prossimo è prevista un’esposizione a Livorno, città di Modigliani, presso il Museo Civico Fattori di Villa Mimbelli. Come vede, la mia ricerca artistica non è ancora finita, sono ancora nel mio cammino. Sto pensando di lasciare Parigi per inseguire nuovi stimoli, forse approderò a Berlino. Forse a Venezia. Questo vuol dire dover lasciare il mio amato Atelier, all’unica condizione che rimanga un atelier di artista o un centro culturale dell’École de Paris. La sua anima deve continuare ad essere in vita."
Salutiamo Mira Maodus, la sua tenacia da guardiana e la sua eleganza artistica, dietro la porta sbilenca del suo atelier. Il suo cammino continuerà. L’atelier di Soutine, sarà preservato, dopo la sua partenza? La sua bellezza ed il suo valore verranno celebrati come si meritano?
Con queste domande ci allontaniamo dalla silenziosa impasse della Cité Falguière, e torniamo ai rumori assordanti del traffico di Montparnasse, conservando negli occhi lo splendore dell’ultimo atelier, sepolcro di voci, magnificenze e miraggi di anni d’arte che sono stati folli e che non lo sono più.
Mira Maodus, biografia
Pittrice astratta francese di origine serbo russa, Mira Maodus, nata nel 1942, divide la sua vita tra Parigi, Tokyo e Belgrado. Nella sua storia artistica sono identificabili due periodi, dagli esordi più figurativi, dentro una cornice “matissiana”, passiamo ad una fase decisamente più astratta, cominciata all’arrivo nella ville Lumière.
L’artista contrappone i tocchi di colori con le parole, disegnate l’una dopo l’altra in varianti austere, bombate o rettilinee, in un gioco dialettico di cromatismi. Parole non pronunciate, oppure regalate ad un vento rigoroso.
Mira Maodus ha studiato à l'École Nationale Supérieure des Beaux-Arts a Parigi, all’Accademia delle Belle Arti a Venezia ed alla Werkkunstschule a Francoforte.
Dal 1973 espone in mostre personali e collettive in Francia, Serbia, Giappone, Italia, Russia, Svizzera, Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada. E’ membro della ULUS (The association of Visual Artists of Serbia) e de La Maison des Artistes in Francia.
Sue opere sono esposte stabilmente al National Museum e al Museo d’Arte Contemporanea di Belgrado (Serbia), Museum d’arte moderne Banja Luka (Boznia), Musée Trebinje (Hercegovina) ed al Miyagi Museum of Art a Sendai (Giappone).