“L’identità culturale non esiste”, sostiene il filosofo francese François Jullien; perché la questione dell’identità è “viziata all’origine. Suggerisco di affrontare la diversità delle culture in termini di scarto; invece dell’identità, in termini di risorsa o fecondità.” E cosa rappresenta lo scarto? Non una identificazione, ma una esplorazione. Il cibo è ciò che, più di ogni altra esperienza che facciamo del mondo e nel mondo, mette in gioco due concetti aperti all'equivoco, identità e cultura. Proviamo a partire da qui, per disegnare una mappa possibile del futuro del cibo e del cibo del futuro. Noi “siamo quello che mangiamo” (Ludwig Feuerbach, filosofo) oppure “mangiamo ciò che siamo” (Pedro Reissig, food designer)? Scegliete la formula che preferite, in ogni caso le ritrovate entrambe nel testamento del filosofo Heidegger: noi non siamo nel mondo come l’acqua è in un bicchiere, ma siamo l’acqua, il bicchiere, la mano che lo stringe, le labbra che vi si avvicinano e tutto il resto. Siamo in profonda e necessaria relazione con ogni cosa e ogni cosa ha valore; "Se niente importa, non c'è niente da salvare”, ci suggeriva nel 2009 il romanziere Jonathan Safran Foer, in un reportage letterario che innescò un potente dibattito sugli allevamenti intensivi. E quando parliamo di cibo, quella relazione si anima, innanzitutto, tra noi e il nostro corpo. Mangiare è un atto sociale (ce lo hanno insegnato i grandi storici sociali del novecento, gli annalistes Jacques le Goff e Fernand Braudel e, più recentemente, network come Terra Madre) e pure agricolo (tema caro al filosofo-contadino Wendell Berry). Quando ci sediamo a tavola compiamo, necessariamente, anche un’azione che ha profonde implicazioni etiche e connessioni con il nostro modo di pensare, di giudicare, di vivere. Più recentemente (e modestamente), mangiare è diventato anche un atto social, celebrato quotidianamente da milioni di persone, più o meno innocenti verso una enorme quantità di equivoci intorno al concetto di cibo. Cos’è, dunque, il cibo? E come lo conosciamo, come lo consumiamo? A queste domande ha provato a rispondere l’evento promosso dalla Delegazione Permanente italiana dell’Unesco guidata dall’Ambasciatore Vincenza Lomonaco, giovedì 24 maggio a Parigi, durante una Giornata intitolata a Cultura e cibo: inclusione sociale, sviluppo sostenibile e identità culturali. Il tema è urgente, e non soltanto perché propone un avvicinamento all’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile dell’ONU (vent’anni ancora, e la terra sarà popolata da quasi 10 miliardi di persone), ma soprattutto perché in questo ambito le nostre scelte personali (di consumatori o cittadini o esseri umani, fate voi), condizionano necessariamente ogni aspetto della nostra vita, dalla salute, all’etica, alla politica, all’economia. Le tre parole (cultura, sviluppo, identità) sono state declinate, in modo creativo e inedito, considerando le diverse fasi della produzione, della trasformazione e del consumo di cibo, da osservatori internazionali, antropologi, giuristi e da chi ha in mano le chiavi della tutela e della promozione dei nostri patrimoni immateriali. Il cibo è il nodo intorno al quale si giocheranno le principali partite politiche e sociali del prossimo ventennio. Che non si trasformino tragicamente e rapidamente (è già successo, succederà ancora) anche in una partita militare, sta alla solidità delle visioni e delle scelte dell’attuale classe dirigente, non solo quella transnazionale di organismi come Unesco e ONU, ma in particolare di quelle nazionali, regionali, locali. Nel 2050 pulseranno dunque nel mondo quasi dieci miliardi di cuori? Altrettanti stomaci che nostra madre terra dovrà sfamare, non solo con cavallette, formiche e coleotteri, il Novel Food celebrato come Prodotto dell’Anno 2017 (ma a Parigi già due secoli fa si mangiava senza problemi la soupe de hanneton, una zuppa di maggiolini), ma con cereali, legumi, radici, tuberi e pochi, pochissimi carne, pesce e grassi (animali e vegetali). E pomodori. Recentemente, l’esempio del nostro pomodoro nutraceutico sunblack (naturalmente biotech), a cui il mondo anglosassone ha contrapposto il purple tomato (OGM) esemplifica con cruda evidenza la domanda da cui dobbiamo partire, per evitare un equivoco su cosa sia buono e cosa cattivo: il sunblack ha richiesto una decina d’anni di sperimentazioni sul campo (in senso non figurato), il purple nasce al contrario in laboratorio e in pochi mesi, ma nessuno lo vuole, complice l’immaginario anti-OGM e le relative politiche del consenso, questa volta internazionali. La scienza dovrà darci una risposta, adottando il principio di falsificabilità (non diteci che non vi sono evidenze che l’ingegneria genetica sia dannosa, ma che ve ne sono che non lo sia), nel frattempo il buon senso dovrà verosimilmente indicarci la giusta via. Perché con parole come nutrigenomica e nutraceutica, insomma il tech (naturale o sintetico) applicato alla filiera del cibo dovremo fare i conti. Tecniche e tecnologie innovative, se affrontiamo il discorso correttamente (ontologia, fenomenologia, epistemologia), potranno produrre i maggiori (e migliori) cambiamenti globali sociali, dalla fine dell’ultima rivoluzione, quella che ha generato il nostro attuale ecosistema culturale a partire dagli anni ’90, dopo l’ingloriosa agonia del Secolo Breve. Tutti temi di cui si è parlato, la scorsa settimana a Milano a Seeds&Chip, il principale summit internazionale (a porte aperte) sulla sola questione al mondo più urgente del futuro del cibo: il cibo del futuro. Per mangiare meglio, e perfino liberarci dalle schiavitù del gusto e del tipico ad ogni costo, dell’esaltazione acritica dell’antico mondo contadino e delle ricette immutabili, senza sposare lo smarrimento velenoso e senza ritorno dell’agricoltura intensiva (vedi Le Monde selon Monsanto, fortunato documentario del 2008 della giornalista Marie Robin), dobbiamo essere divergenti. E accogliere l’eredità di due modi di essere nel mondo che hanno generato la parte migliore (o la meno deleteria) della nostra società: l’umanesimo e l’illuminismo. Insieme ci offrono l’attitudine a porre le giuste questioni e a trovare le risposte, non tanto quelle giuste, ma le migliori possibili. Accogliere la tecnologia (ingegneria genetica compresa, magari sul campo e non in laboratorio) è il sistema migliore per cancellare la chimica (esiste anche quella buona?) dal piatto, far viaggiare persone, merci ed esperienze il sistema migliore per tutelarne le precarie identità, trasformarle senza tradirle. Ciò che non muta, diceva Eraclito, non è destinato alla morte, perché è già morto. Non combattiamo la globalizzazione delle opportunità, ma quella del gusto. Seguiamo un approccio poco frequentato, di cui si parlerà nella Giornata Unesco. In un recente, sostanzioso saggio, Philosophers at Table: On Food and Being Human, i filosofi Raymond Boisvert and Lisa Heldke cercano di codificare le questioni ontologiche (cos’è il cibo), fenomenologie (come lo scegliamo e lo consumiamo) ed epistemologiche (come lo conosciamo) dell’atto quotidiano più intimo e insieme sociale della nostra esistenza, suggerendoci come il cibo sia insieme il principale fondamento della nostra vita e quello di (quasi) ogni nostra scelta. La ricercatrice statunitense Ileana Szymanski mette addirittura in relazione la Repubblica di Platone con un discorso sul cibo, arrivando a sostenere la necessità di considerare la nostra spesa al supermercato come una scelta etica ed estetica. Perché (ecco la questione epistemologica) Il cibo non è una generica commodity (come ad esempio il petrolio), carburante per il corpo; non è affatto indifferente chi lo produce, né come viene prodotto. E neppure perché viene prodotto. Il cibo è al contrario un common, un bene pubblico e condiviso. Possiamo allora parlare di tradizione creativa. La creatività è la capacità di mettere in relazione e di connettere le cose tra loro. La traduzione (al contrario del tipico) deve essere, necessariamente, cross-disciplinare, deve nutrirsi delle esperienze, degli atomi sociali del proprio tempo, oltre il proprio spazio. Il tipico, al contrario, rischia di diventare il cimitero della tradizione. In questo senso, potremmo riprendere il celebre invito del poeta Paul Valéry, “Lasciate che i monumenti cantino”, declinandolo più o meno così: lasciate che i pomodori raccontino.
Cuisines Croisées
ArtusiVsEscoffier “Non mi rimproverate se in queste ministre v’indico spesso l’odore della noce moscata. A me pare che stia bene; se poi non vi piace sapete quello che avete da fare”. La ricetta è quella delle pappardelle colla lepre. La penna, quella di Pellegrino Artusi, il convitato di pietra e il demiurgo delle nostre cucine casalinghe, esploratore del gusto delle ottomila comunità (tanti sono i Comuni italiani) che con lui, per la prima volta, si sono messe a tavola con la percezione di avere un linguaggio comune, con caratteri che ancora oggi sussistono e sono insieme espressione delle nostra virtù e dei nostri vizi. Improvvisazione, identità locale, estrema frammentazione di ricette (impensabile e difficilmente raccontabile altrove), biodiversità. La creatività (nostra virtù) è un concetto volutamente aperto all’equivoco, a seconda dei princìpi e dei valori che ne fondano le possibili definizioni. Le parole che servono a dividere e a distruggere o a creare e comporre, ciò che conta è l’intenzione. Anche, soprattutto in cucina. Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei, scriveva il grande fisiologo del gusto Jean Anthelme Brillat-Savarin; possiamo aggiungere come mangi e avremo il ritratto di due straordinarie culture alimentari e gastronomiche del pianeta, quella italiana e quella francese. La cucina italiana è una cucina della resilienza, della condivisione e dell’ossessione per la tradizione, mentre in Francia si applica una cucina della composizione, del rituale, dell’esperienza a tavola. L’esperienza francese della tavola è codificata, come d’altra parte ogni elemento del corpo gastronomico. Formules déjeuner, carte e menu sono imprescindibili per chiunque metta piede a Parigi, in Francia e pure ovunque (alberghi, navi da crociera, parchi di divertimento) la cucina francese coincide con quella contemporanea, cioè internazionale. In Italia abbiamo i primi, un patrimonio nazionale, ma siamo secondi nella narrazione (lo storytelling) del tesoro che natura e cultura ci hanno offerto per secoli. Siamo schiavi di pizza e pates come i francesi lo sono del gusto ad ogni costo. Abbondantemente innafiato di terroir (champignons, foie gras, fines de claire), mentre da noi è il territorio, con prodotti semplici e quotidiani (ma non meno rari) che domina i rituali, dalla pasta con la mollica al sicchio d’a munnezza vesuviano, fatto con le ciociole (uvette, noci, pinoli) raschiate dalla tavolata natalizia del giorno prima. Cibi di rara bontà e consistenza, lontanissimi dal codice aureo di Auguste Escoffier, inventore alla fine del IXI° secolo della cuisine gourmande, della gastronomia francese (e Italiana). Tecniche, materiali, cotture vengono ingegnerizzate dal primo chef nazionale di Francia e mai più abbandonate. Tre i concetti a fondamento del nuovo paradigma: la cucina è alta sartoria, nuova e rivoluzionaria arte della borghesia (ormai le nobili teste sono cadute da oltre un secolo), cucinare è un mestiere e prevede l’esatta conoscenza della fisica, della chimica ed è incentrata sul gusto, attraverso tutti i sensi (in primis, l’odorato). La quarta regola, non scritta e recentemente sancita dall’Unesco, riguarda il luogo e il modo privilegiato del suo consumo: la cucina si serve a tavola, con un rituale che porta il nome di repas gastronomique. Fin dalla prima pagina della bibbia della nuova cucina internazionale, ritroviamo, già confezionato, il modello della nouvelle cuisine (che vi aggiunse poi la necessità di semplificare e di restituire dignità alle materie prime, al terroir). Al di qua delle Alpi, il discorso si ribalta: la cucina si fa in casa, si mangia (anche) per strada, si aggiunge o meno noce moscata (Artusi) o olio (Donpasta) all’uopo, a seconda dell’appetito, dell’umore. O così, a’ sentimento, senza alcuna ragione apparente. A Firenze prima e a Napoli poi, le capitali della cucina sincretica aristocratico-popolare, si sperimenta da secoli per le decadenti e sontuose tavole aristocratiche, ma consentendo ad un fiume carsico, quello delle cucine popolari comunitarie, di esprimersi, di entrare nelle cucine, non solo in quella del Re. Oggi, Massimo Bottura (che non a caso spadella in una Osteria) da una parte, Alain Ducasse (sbarcato addirittura alla Reggia di Versailles) dall’altra, guidano le prime due cucine nazionali del mondo (la nostra risponde al principio dell’indeterminazione, quella francese alle leggi della forza centrifuga) senza troppo domandarsi cosa e come sarebbe una cucina umanista e popolare finalmente unita a quella illuminista, assai borghese, d’oltralpe. Qualcosa di simile ad una nuova rivoluzione, la cui epifania, forse, cominciamo ad annusare. In attesa della prossima, inevitabile, restaurazione.
Terroirs o territori?
Salviamo il nostro patrimonio, contro il concetto di tipico, allo stesso tempo globalizzando le opportunità e le innovazioni, non il gusto. Qui si gioca il futuro delle eccellenze italiane (tendenti al tipico) e di quelle francesi (tendenti all’omologazione e alla globalizzazione). Intanto, i marchi europei di tutela, proprio in queste settimane certificano il primato continentale per l’Italia (la Francia è in seconda posizione), popolata da trecento alimenti e prodotti D.O.P. (Denominazione d’Origine Protetta, gli alimenti i cui valori coincidono con l’identità dei luoghi in ci vengono prodotti e trasformati) I.G.P. (Indicazione Geografica Tipica, prodotti in particolare agricoli la ci reputazione è territoriale) e STG (Specialità Regionale Garantita, premiano i savoir faire e i protocolli, sono solo due, la pizza e la mozzarella). Subito dopo di noi, la Francia, con quasi mezzo milione di addetti nell’industria ago-alimentare (la prima del Paese). Dal 2006 al 2017 sono otto (due transnazionali) saperi e le pratiche iscritte a Patrimonio immateriale Unesco; è una sorta di super dop/igp/stg, caratterizzati tradizione, memoria, comunità, a volte pericolo di scomparsa; insomma, una riserva che rischia, pur non desiderandolo (Unesco promuove nel suo statuto la creatività e la diversità culturale) di coltivare l’idea di tipico, che è paradossalmente il miglior alleato dell’omologazione, che ha campo libero su tutti gli altri fronti, dalla ristorazione non gastronomica (e a volte anche quella) alla grande distribuzione (le francesi Auchan e Carrefour sono un benchmark anche in Italia). Serve ripensare il consumo, ma anche il rapporto tra cibo, cultura e territori; in entrambi i Paesi, l’alleanza tra cibo, turismo e patrimoni infila annualmente nelle casse dello Stato un euro ogni dieci. Se vi fosse un approccio interdisciplinare, è facile immaginare una crescita esponenziale dei diversi settori. Un esempio? L’esperimento, o se vogliamo la giusta provocazione, dell’ex-ministro francese della Cultura J.J. Aillaigon, che volle alla Reggia di Versailles l’alta gastronomia di Alain Ducasse (Ducasse au Domaine de Versailles). In Italia, FICO a Bologna segue altri percorsi, ma con il medesimo obiettivo: fare della cultura del cibo una esperienza e, in sostanza, consentire ai consumatori di comprendere, di partecipare, di scegliere. In quella terra di frontiera (con la Francia) che è il Piemonte, anche grazie all’esperienza di Slow Food, Terra Madre, dell’Università di Pollenzo, del sistema integrato e diffuso delle Langhe (vino, nocciole, cioccolato, formaggi ad altissimo valore di brand), sta nascendo un polo diffuso di eccellenze senza eguali che la città di Torino potrà valorizzare anche attraverso risorse e visioni di nuovi spazi culturali e identitari come le Officine Grandi Riparazioni, quasi un esperimento alchemico, forse in grado di creare un nuovo ecosistema in cui cibo, cultura, industrie creative e performing arts potranno forse un giorno dialogare in modo nuovo, libero, aperto. E in cui, in particolare, potranno trovare una piazza di dialogo due Paesi, così vicini e così lontani, come Francia e Italia. Ne abbiamo bisogno, se vogliamo guadagnare una nuova sintesi tra cuore e ragione, l’eredita delle lumières con un poco - tutto quello che resta - di umanità.